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Friday, July 31, 2009

UNA TORRE NEL DESERTO



BABEL
Come posso definirlo il migliore film visto quest'anno?
Come posso definire "bellissima" un'opera che ti lascia dentro un vuoto pneumatico di dolore, di buio e bieca disillusione? Sarebbe come chiamare il crollo delle Torri Gemelle uno spettacolo stupendo, o premiare la morte di un clochard all'angolo di una strada.
Eppure Babel è il film più struggente, teso, indimenticabile della nuova stagione.
Una sinfonia di rumori e suoni, di volti solcati, di anime in cerca non di una verità, ma di un'identità.
Babel conclude idealmente la trilogia di Inarritu cominciata con quel capolavoro assoluto che è AmoresPerros e proseguita con il (a mio avviso) passo falso di 21 Grammi. Sono film di incredibile modernità, che affrontano tematiche complesse e violente come l'incomunicabilità, la ricerca, il silenzio, la sorte, il ruolo stesso dell'umanità. Ma Babel spinge al massimo il fil rouge del regista, e fa emergere dall'inferno delle nostre vita la vera causa di tutto il male: la nostra cruda, terribile, ancestrale solitudine.
Il film è un urlo disperato sulla condizione umana, sulla divisione, la parcellizzazione in cui siamo costretti, la finta libertà che si trova in una discoteca in cui non puoi sentire la musica, in una vacanza dove trovi la morte, in un matrimonio che è solo la fine e non l'inizio.
Moriremo soli, divorati dalla nostra stessa colpa.
 
Il film parte dalla solita struttura corale (ecco forse un punto debole nell'impianto narrativo), in cui diversi personaggi di natura e condizione (geografica, sociale, economica, culturale, morale) diversissima si ritrovano collegati in un giro di vite assordante. Giappone, Marocco e Messico idealmente uniti da uno stesso filo narrativo.
La vicenda messicana è la più debole, quella marocchina la più violenta, ma quella giapponese la più interessante e tesa. Un coacervo di personaggi in cerca d'autore, di un'identità, di un valore in cui credere.
Gli attori sono sensazionali, uno sforzo corale incredibile, e davvero tanto di cappello alla direzione del cast. Brad Pitt e Cate Blanchett sono forse i meno incisivi: vuoi per il loro aspetto noto, vuoi per una modalità recitativa fin troppo consolidata, sono quelli che lasciano meno il segno (ma aspettatevi una nomination all'Oscar per Pitt). Le più grandi soddisfazioni arrivano dal resto del cast. Rinko Kikuchi (protagonista del segmento giapponese) è indimenticabile nel ruolo di Cheiko: una ragazza sordomuta alle prese con un passato che perseguita e un presente insondabile. Questa ragazza farà strada, io ne sono perdutamente innamorato. Struggente Adriana Barraza (segmento messicano). Fenomenali tutti i volti sconosciuti che incontriamo in giro per il film: un'opera che conta più di 100 attori, e che proprio per questo comunica un senso di solitudine e delirio incredibile.
 
La sceneggiatura del fidato Guillermo Arriaga (con cui Inarritu ha scritto tutti e 3 i suoi film) lascia il segno, così come tutto l'aspetto tecnico, dalla fotografia lucidamente buia di Rodrigo Prieto alla colonna sonora memorabile e struggente di Gustavo Santaolalla (premio Oscar per Brokeback Mountain).
 
Il film è violento, triste, implosivo nella sua costruzione: l'isolamento psico-fisico dei suoi personaggi, come nell'omonima torre biblica, porta all'impossibilità reciproca non solo di comunicazione, ma anche di partecipazione. E la sequenza finale, di intensa commozione, è un respiro freddo che gela la nostra pelle. La straordinaria regia di Inarritu evita le disseminate trappole che potremmo incontrare in un film del genere: non annoia, non cerca la ruffianata, non rincorre lo shock. Inarritu accarezza la vita, la osserva, la racconta. La soluzione non è mai a portata di mano, e vivere diventa un lavoro di vorace difficoltà.
 
Siamo talmente così diversi gli uni dagli altri, da essere, praticamente, uguali.
Essere umani, appunto.
 
 
VOTO: A- 
 


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